«So che la poesia è indispensabile, ma non saprei dire per cosa.»
Con questa frase di Jean Maurice Eugène Clément Cocteau vorrei aprire la mia recensione della silloge poetica Tanto vero da farsi utopico di Mario Saccomanno.
Per chi non lo conoscesse, Cocteau è stato un poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore, disegnatore, scrittore, librettista, regista e attore francese. Egli è l’autore del romanzo Enfant terrible e fece parte del circolo letterario del filosofo Jacques Maritain, che negli anni ’20 del ‘900 radunò intorno alla propria figura una serie di artisti che, stanchi delle vicende belliche del primo decennio del loro secolo, si erano avvicinato al cattolicesimo e al filosofo in questione (basti pensare al pittore George Rouault). Cocteau, inoltre, ebbe una breve, ma intensa relazione con il giovane scrittore Raymond Radiguet, autore de Il diavolo in corpo.
Il perché abbia citato questa sua frase per introdurre l’opera Tanto vero da farsi utopico è davvero molto semplice: spesso e volentieri si ci ostina a uccidere la bellezza della poesia cercando di esplicitare il senso che essa ha racchiuso in sé. Spesso, ancora, si vuole cercare di dare una risposta tecnico-scientifica a quell’enorme bellezza rappresentata dalla cultura umanistica che per noi, sia storicamente che geograficamente, facendo parte dell’antica Μεγάλη Ἑλλάς, era fondamentale sin dai tempi dell’antica Grecia. La bellezza della Poesia la si evince già dal significato stesso del suo nome. La poesia, dal greco ποίησις, con il significato di creazione, è nata ancor prima della scrittura. Ricorderemo tutti, infatti, come già le opere epiche per eccellenza, Iliade e Odissea, fossero tramandate inizialmente in forma orale da parte dell’aedo. Già allora la poesia non aveva bisogno di essere spiegata perché il suo stesso essere messa in atto la poneva come legge morale e divina capace di portare gli uomini sulla retta via e di fargli comprendere l’importanza delle azioni tramandate da parole soavi e potenti.
Ora, nel corso dei secoli, la poesia ha mutato forma, ma non certo intenzionalità.
Facendo un salto secolare non certo di poco conto, nel ‘900 ci si trova innanzi a un Secolo breve ricco di cambiamenti culturali ed emotivi che richiedono una nuova forma di espressività degna di un animo umano così profondo e tormentato. Nasce così l’ermetismo e ritorniamo al fatto che non bisogna affatto spiegare la Poesia poiché essa parla da sé. ll termine, adottato da Francesco Flora nel 1936, rimanda ad una concezione mistica della parola poetica perché fa riferimento alla figura leggendaria e mistica di Ermete Trismegisto (Ermes il tre volte grandissimo) risalente al periodo ellenistico. Sul piano letterario con il termine ermetismo si sottolinea una poesia dal carattere chiuso (ermetico) e volutamente complesso, solitamente ottenuto attraverso un susseguirsi di analogie di difficile interpretazione. Grandi interpreti ne sono stati Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale e Giuseppe Ungaretti.
Non mi sembra affatto un’esagerazione accostare il libro proposto da Mario Saccomanno a questi grandi autori e alla loro metrica. La poesia proposta dal nostro autore non è di facile interpretazione, non è di facile digestione. È talmente complessa da racchiudere un mondo all’interno di sé. Un mondo che non deve essere esplicitato attraverso una parafrasi goffa e semplificativa, ma deve essere raccolta nell’anima e deglutita a piccoli morsi, in modo tale da poter essere gustata al meglio e compresa dal profondo della Ψυχή, l’anima in greco antico, il soffio vitale che ci tiene in vita e ci permette di continuare a guardare le stelle con la stessa aria innamorata che avevamo milioni di anni fa quando iniziavamo a dare un nome alle costellazioni. La poesia di Mario Saccomanno va dunque accolta nel grembo dei nostri spiriti, va compresa, ma non esplicitata, poiché essa ha la capacità di darci le risposte che cercavamo senza bisogno di domandare alcunché. Essa è aria leggera che si tramuta in tempesta con le sue parole colte e raffinate volte a dischiuderci un mondo che vuol farsi scoprire senza rivelarsi mai totalmente.
Quello che Mario Saccomanno ci mostra è un’opera intessuta nel tempo e per il Tempo. Un’opera del genere non nasce dall’oggi al domani, ha bisogno di mesi e mesi di ripensamenti e illuminazioni. Le parole sono state masticate e spolpate per tornare a nuova vita attraverso una metrica accurata e densa di esistenza. In greco antico abbiamo due termini per definire la vita: βιος, la vita quam vivimus, cioè la vita qualificata, che ha un inizio e una fine; ζωή, la vita qua vivimus, ovvero l’essenza della vita. Quest’ultima accezione è riscontrabile pienamente all’interno di Tanto vero da farsi utopico. Lo si può notare perfettamente nei suoi versi, basta sfogliare la poesia Metodiche incertezze.
«Razzolo nei libri e nella vita
per scovare in mille idee
passi falsi e zoppicanti bagliori
dalla scuola del tempo svelati.
Costa molto sangue
cucire sulla pelle
un appiglio di futuro.»
I poeti insegnano a vivere, non a caso Omero era considerato un maestro di vita con i propri poemi che illustravano all’umanità la retta via attraverso quel groviglio di emozioni che siamo tutti destinati a portarci dentro.
«L’importante non è vivere, ma vivere bene», afferma Platone attraverso la bocca di Socrate all’interno del Critone.
«Questa sere non ho versi da scrivere.
Eppure, la mia penna lascia tracce
e l’inchiostro scorre su questo foglio.»
E Mario Saccomanno lascia delle tracce e le lascia in maniera indelebile. Perché questo è il compito del poeta e l’autore in questione è consapevole della ferocia e della delicatezza che solo uno scrittore con la propria penna è capace di portare al mondo.
Ora, nonostante il passato ci abbia mostrato spesso il contrario, dobbiamo dire una verità indissolubile: l’intellettuale si deve fare portavoce della morale o, quanto meno, essere consapevole del fatto che le proprie idee possano pesare molto più di quelle di chiunque altro. In questo caso l’autore si fa portavoce della propria visione del mondo e accompagna il lettore attraverso una Weltanschauung chiara e potente, capace di esprimere i pensieri più alti con una raffinatezza davvero unica. È chiaro che un grado così alto di purezza letteraria non può e non deve essere raggiunto tramite il semplice meditare, ma vi sono dietro studio e dedizione come dovrebbe essere in qualsiasi cosa della nostra esistenza. Le tematiche sono tante e importanti e ognuno di noi può ritrovare in esse un pezzetto della propria anima.
Tutto ciò lo si può notare all’interno della poesia Le conseguenze. La voglia di libertà, la voglia di esprimersi secondo la propria natura.
«Ho rescisso il contratto ingiurioso
da qualcuno siglato a mia insaputa.
Ho tesaurizzato il tremito del tuo odore,
il balbettio scaturito dalla tua presenza.
Sebbene in tempesta,
ha un suono ammaliante
il pulsare del mare.
Sto nuotando nell’acqua di sentina,
la sola che mi offre questa vita,
scalciando ogni mia incertezza,
stracciando ogni mio orizzonte
per dirti finalmente cosa provo.»
Tutto ciò lo si potrebbe legare al poeta e scrittore Cesare Pavese che nel 1950 vinse il Premio Strega. Lo stesso anno l’autore in questione decise di togliersi la vita e non possiamo certamente dimenticare il suo urlo contro la critica letteraria e lo stesso pubblico che, spesso, alimentano la fama di un autore basandosi semplicemente sulle opere più fruibili, tacciando di inspiegabili i grandi libri che invece esprimono a pieno la genialità di un artista, ma troppo complesse per poter essere comprese dai più e nel caso di Pavese era il Dialogo di Leucò in cui l’artista abbandonò il suo ultimo messaggio per il mondo: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi».
L’artista, dunque, deve sentirsi libero di poter esprimersi al meglio delle proprie potenzialità anche a discapito della generale comprensione.
«Venire gettato in un mondo;
conoscere, per quel che si può;
sognare, ma mai al punto
da far venire il mal di testa;
poi, infine, morire.
Alcuni direbbero: tutto qui?
In molti, in effetti, lo dicono a gran voce
cercando, raggianti, metodici sistemi
ricchi di orpelli, tanto da rendere
l’ignoto non solo afferrabile,
ma perfino necessario
e, se seguiti, facilmente gustabile.
Passa oltre e aggrappati al tuo giorno.
Riposati sul masso della ragione,
nel prato della scienza, tra ragni e formiche,
e bada bene alle tue orecchie.
Fin lì, infatti, arrivano le nuove offerte
delle urla dei proseliti
di tutti quei dispotici profeti.»
Rosita Mazzei